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Se Bush scopre Putin
Gianni Riotta su la Stampa

Le due settimane trascorse da martedì 11 settembre hanno per sempre mutato il nostro mondo. Gli Stati Uniti si sono scoperti vulnerabili in casa, dopo quasi due secoli. La "guerra asimmetrica" dei terroristi spera di trasformare vittorie tattiche, il crollo del World Trade Center e la strage al Pentagono, in strategiche, costringendo l'occidente a mutare corso.
Tutti gli altri paesi, grandi e piccoli, vedono modificate le regole della comune vita sul pianeta. Il presidente russo Vladimir Putin viola la vecchia norma della Guerra Fredda e non risponde all'allerta delle forze armate americane con analoghe misure russe. Chiama al telefono il presidente George W. Bush e offre collaborazione. Da quando soldati americani e sovietici s'erano abbracciati sul fiume Elba, nel 1945, mai Washington e Mosca erano state così vicine e con tali opportunità di collaborazione. Alleati tradizionali sono in difficoltà e avversari del recente passato cambiano pelle. In Israele, il premier Sharon si ostina nelle sue ripicche quotidiane, perdendo di vista il quadro globale.
In Arabia Saudita, da sempre amica degli Usa, il principe Abdullah si preoccupa della base fondamentalista, del network di Osama bin Laden e rilutta davanti alle operazioni militari. Non concederà permessi ufficiali, ma si limiterà a "permettere" i blitz del generale Wald, dalla base di Prince Sultan. Altrettanto timido l'egiziano Mubarak. Il Pakistan del dittatore Pervez Musharraf esce dal limbo dei paesi sotto sanzione per i programmi nucleari, riceve aiuti e, se impegnerà i servizi segreti contro il terrorismo, acquisterà credito con Washington. La Cina, i cui esperti militari Qiuo Liang e Wang Xiangsui postulano "La guerra senza quartiere", è davanti a un dilemma: la minoranza islamica interna crea problemi, ma vedere la bandiera a stelle e strisce in Asia Centrale, d'intesa con il Cremlino, allarma non poco. Infine noi europei.
La Nato ha promesso collaborazione, il premier inglese Blair mobilita le forze speciali, ma il presidente francese Chirac teme i cinque milioni di cittadini musulmani e le elezioni vicine. Ottimo il ministro tedesco Fischer. Ancora pervasa da "antiamericanismo" e incerta l'opinione pubblica. Non ci apprestiamo a combattere la "guerra delle civiltà". Vari regimi filo-occidentali sono totalitari. L'America sembra però comprendere che la "guerra asimmetrica" si vince colpendo i terroristi e non i civili, raccogliendo consenso tra la popolazione afghana con aiuti economici e offrendo al mondo arabo, finalmente, un dialogo vero.




Se Putin scopre Bush
Giulietto Chiesa su la Stampa


L'America ora sa - anche se non è detto che vi rinuncerà - che non potrà avere dalla Russia ciò che la Russia non può darle. Vladimir Putin è stato colto di sorpresa dall'11 settembre non meno di Bush. Ma ha capito in fretta che gli si offriva un'occasione cruciale per sradicare definitivamente la guerra fredda dalle menti americane (e russe), e per saldare i conti con i suoi separatismi, islamici e non. Ma non può passare sopra ai sentimenti rancorosi dei suoi generali. Darà la sua intelligence, quella che ha; metterà a disposizione, in qualche modo, il suo spazio aereo e quello della Confederazione di Stati Indipendenti. Ma non arriverà a concedere basi e atterraggi. Non potrà infine - perché gli costerebbe troppo, sul piano interno, non solo verso i generali ma verso parti cospicue di opinione pubblica - impegnare i suoi soldati. Ma se l'Alleanza del Nord spianerà il terreno agli americani sarà merito tutto russo. La Russia ha già pagato in Afghanistan, ora tocca a coloro che la sconfissero riconquistare ciò che avevano preso e che perdettero per loro colpa.
Restano due problemi, che sicuramente Bush e Putin non hanno definito: quale sarà il governo di Kabul una volta debellati i taleban. E fin dove Mosca è disposta a seguire Washington dopo che la casella di Kabul sarà stata occupata da un nuovo pedone



Intellettuali arabi suggestionati dal nazismo
Fiamma Nirenstein su la Stampa

L'Islam, come testimonia in tanti indispensabili testi Bernard Lewis, il maggiore storico del Medio Oriente, è una delle grandi religioni del mondo. Ovvero, è una religione che ha portato conforto e dignità a innumerevoli milioni di uomini e donne, che ha dato significato e ordine a tante vite investite dalla miseria, dai conflitti, dalle disavventure della storia. Ha insegnato a popoli di razze diverse a vivere nella fratellanza e a genti di credo diverso a vivere per alcuni secoli in ragionevole tolleranza.

Perché nasce l'odio per l'Occidente? E quanto è diffuso?

I musulmani avevano avuto dalla loro fede e dalla loro storia un compito di conquista, Mohammed non era solo un profeta e un maestro come i fondatori delle altre religioni: era anche il capo della comunità politica, il detentore del potere militare vittorioso che "sul sentiero di Dio" aveva combattuto per stabilire la Casa dell'Islam contrapposta a quella della Mancanza di Fede o della Guerra. Una visione che interpretata variamente, in senso più spirituale o meno, conduce direttamente all'idea di jihad, anche se è noto che per jihad si possono intendere sia quella interiore, di liberazione dell'anima dai peccati, come quella invece più concreta contro l'infedele, quella contro gli Stati Uniti.
Oggi, sfortunatamente, la jihad viene invocata soprattutto in senso molto concreto e diretto, da molte moschee e durante l'educazione dei bambini nelle scuole coraniche di tutto il mondo. L'11 di settembre dalla Moschea di Al Aqsa la predica trasmessa dalla tv riportava commossa la promessa di un quattordicenne di diventare un martire, uno shahid, suicida assassino contro gli ebrei "figli di maiali e scimmie". Il mufti ha pregato pubblicamente Dio di "distruggere l'America", su un giornale palestinese era scritto "gli americani assassini dell'umanità, creatori di una cultura barbarica e vampiri delle nazioni sono destinati alla morte". Sono espressioni molto comuni che hanno diffusione enorme nell'informazione nell'educazione anche del mondo musulmano moderato.
Come si arriva a questo? La sistematizzazione teorica di un mondo manicheo in cui i nemici di Dio sono i nemici dell'Islam e la jihad diventa indispensabile, avviene in gran parte nel diciottesimo secolo con l'avvento del Wahabismo sorretto dai sauditi; il terrorismo è un'arma dell'Islam estremo già dal tempo degli "assassini" parola di origine, appunto, araba derivante da una feroce setta che dalla Siria all'Iran operò nei secoli dall'XI al XIII.
Il disprezzo, tuttavia, che è una forma molto particolare di odio diventa lectio comune nel secolo passato, quando l'Occidente partorisce una serie di ideologie di denigrazione che si vanno a incastrare perfettamente con il sentimento di frustrazione dell'Islam nel vedersi sopravvanzato e anche sfruttato colonialmente da una civiltà che ritiene inferiore.
Il fascismo, il nazismo, il comunismo, entrano variamente in contatto politico con il mondo islamico, e gli suggeriscono il disprezzo della democrazia capitalista e anche le prime forme di antiamericanismo. Perché l'Islam dell'America si era invece occupato pochissimo. È solo nel tempo e con la Guerra Fredda che essa diventa sinonimo di Occidente, e si prende tutte le maledizioni, condivise con Israele, che spettano alla civiltà corrotta, viziosa, occupatrice che corrompe un Islam puro e sconfitto ma che, e questa ideologia trionfante è adesso in gran voga, sta per sconfiggere il nemico.
Dai tedeschi non solo nazisti, ma anche da Rilke, da Junger, da Heidegger molti intellettuali arabi ricavarono l'idea che l'America è il guscio della cultura materialmente avanzata ma corruttrice e senz'anima, priva di civilizzazione. Negli anni trenta e quaranta questa fu una moda culturale. Come si sa, poi il nazismo strinse alleanza con una parta del mondo arabo contro l'Inghilterra e l'insorgenza del sionismo, e i rapporti si fecero più intrinseci. Quanto ai sovietici, essi durante tutti gli anni della Guerra Fredda fecero del campo islamico il loro campo, fino allo scontro con l'Afghanistan. Né risulta che lo secolarizzazione russa, l'ateismo comunista, abbia mai ricevuto delle critiche e delle espressioni d'odio come quelle raccolte dagli USA. Su tutto questo si inserì la mistica terzomondista, che mette anche oggi nella sua forma antiglobal tutto il bene su ciò che non esiste, e sull'esistente ogni male.

La crescita di un Islam estremo ha avuto molte conferme vittoriose: la rivoluzione islamica dell'Iran; la lunga successione degli attentati (suicidi, dirottamenti, bombe, agguati) riusciti, con migliaia di morti, degli Hezbollah, di Hamas, della Jihad e di altre organizzazioni palestinesi, della Fratellanza musulmana, di Bin laden, il crescente sostegno di stati come l'Iran stesso, la Siria, l'Iraq, la Libia,l'Arabia Saudita, l'Afghanistan, il Pakistan…; la crescita di una quantità di finanziamenti e rifugi ereditati dalla Guerra Fredda, in parte al contrario, come nel caso di Bin Laden e di Hamas, dalla stupida speranza americana e anche israeliana, negli anni '80, che l'integralismo islamico fosse un buon investimento per battere altri nemici.
Anche il terrorismo anticristiano è cresciuto grandemente, in paesi come la Nigeria, le Filippine, Est Timor, l'Egitto (contro i copti), e tutti gli "infedeli" in questa rinascita islamica sono nel mirino. I Dinkas del Sudan, gli Hindus in Kashmir, i Bahai in Iran. L'understatement per anni è stato grande e anche la paura. Adesso, fedeli a noi stessi e alla nostra fede incrollabile nei diritti umani, dobbiamo dedicarci al compito più importante. Battere il terrore, violazione ultimativa di ogni diritto. Siamo stati cattivi consiglieri nel passato, e mal ce ne incolse: adesso l'Occidente non ha altra soluzione alla crisi che chiedere all'Islam di rinunciare alla sua parte estrema



La svolta della Chiesa aiuta la politica
Stefano Folli su Corriere della Sera

Quanto pesa la Chiesa nelle scelte del governo italiano rispetto alla crisi afghana? Una frase del Papa, l'altro giorno in Kazakistan, aveva fatto pensare che il mondo cattolico si preparasse a compiere un passo decisivo verso il disimpegno, quasi la neutralità tra la coalizione occidentale e i suoi obiettivi militari. "Le controversie vanno risolte con il dialogo, non con le armi": un'affermazione che era piaciuta ai pacifisti, cattolici e non. Di contro, definire indirettamente "una controversia" la tragedia che ha sconvolto l'America aveva suscitato qualche perplessità al di là dell'Atlantico. In un modo o nell'altro le parole del Papa non sarebbero rimaste senza conseguenze.

L'equivoco sulle parole del Papa è però durato poche ore. Lo stesso Giovanni Paolo II ieri ha usato termini inequivocabili contro "il terrorismo che profana il nome di Dio". Negli Stati Uniti questa seconda dichiarazione è stata giudicata, a ragione, come una sorta di via libera del Vaticano alla rappresaglia militare, sia pure limitata e badando a non spargere sangue innocente (lo ha precisato il portavoce della S. Sede). Ma per non lasciare dubbi sull'attitudine della Chiesa, che certo non ignora il precipitare degli eventi, è intervenuto anche il cardinal Ruini. Il quale si è rivolto all'opinione pubblica italiana e ha badato a non fornire alcun alibi alle posizioni pacifiste o neutraliste (del genere "né con Bush né con Bin Laden"). Posizioni che esistono nel mondo cattolico e che attendono solo le prime bombe per riemergere.

E' facile prevedere che questa svolta della Chiesa renderà più agevole la gestione politica della crisi a Roma. Finora, dietro lo schermo della solidarietà agli Stati Uniti, il centro-destra e gran parte dell'opposizione (escluso Bertinotti) si sono trovati in sintonia. L'invito all'unità nazionale, più volte ripetuto dal Quirinale, è stato accolto di buon grado. Berlusconi e D'Alema si sono espressi con linguaggio simile e il presidente dei Ds - come ha fatto notare il giornale di Giuliano Ferrara - ha riacquistato in fretta lo smalto del leader.




I vescovi italiani con gli Usa: un dovere la loro lotta
su Corriere della Sera

Il cardinale Camillo Ruini apre i lavori del consiglio permanente della Cei che normalmente si occupa di questioni italiane. Ma questa volta non può non dedicare gran parte del suo discorso ai venti di guerra che percorrono il mondo. E lo fa per affermare che la risposta al terrorismo è un "diritto-dovere" degli americani e di tutta la comunità internazionale.

"È fuori di dubbio il diritto, anzi la necessità e il dovere, di combattere e neutralizzare, per quanto possibile, il terrorismo e coloro che, a qualunque livello, se ne facciano promotori o difensori".

in guardia da "semplificazoni e generalizzazioni che sarebbero gravide di conseguenze funeste, a un livello durevole e globale". Prima fra tutte "l'ingiusta identificazione e confusione tra ideologia della violenza e della guerra e religione musulmana".

"Bisogna smascherare e superare quello pseudo-moralismo, presente purtroppo anche nei nostri Paesi e perfino tra i cristiani, che tende a vedere negli Stati Uniti la causa e la sintesi dei mali del mondo, ravvisando in essi la massima espressione di una civiltà e di uno sviluppo che sarebbero irrimediabilmente mendaci e malvagi".

il nuovo disegno di legge sull'immigrazione del governo, giudicato "piuttosto restrittivo e già ora fortemente discusso". Bisognerebbe invece "trovare un non facile punto di sintesi" che coniughi "le esigenze di accoglienza e le necessità della nostra economia con il contrasto dell'immigrazione clandestina e la possibilità di una proficua integrazione nel nostro tessuto sociale".

Per difendere con convinzione il cardinale di Genova Dionigi Tettamanzi: "Le accuse ai vescovi di scivolare verso posizioni anti-occidentali sono ingiustificate e non accettabili". Perché in quella occasione [il G8 di Genova] la Chiesa ha svolto manifestazioni "distinte" dal Genoa Social Forum e ha denunciato in anticipo "il rischio di inammissibili violenze".



Il papa ha due serpi in seno
Mentre Wojtyla predica la pace in Kazakistan, in Italia Navarro e Ruini giustificano la guerra
Mimmo de Cillis su il Manifesto

Il papa ha due nemici in casa propria. Mentre Wojtyla in Kazakistan predica con forza l'urgenza della pace e la via del dialogo contro la logica delle armi, il suo portavoce Joaquin Navarro-Valls e il cardinale vicario di Roma Camillo Ruini gli tendono un'imboscata. La forza si può usare, anche a costo di qualche vita umana, dice il primo. La chiesa è dalla parte degli Usa, aggiunge il secondo, accettando la semplificazione manichea operata da Bush.

Per la crisi nata con l'11 settembre, ha detto Navarro all'agenzia Reuters, "il Vaticano preferisce una soluzione non violenta, ma comprende il ricorso della forza da parte di Washington per difendere i suoi cittadini da minacce future". Il punto sta nell'interpretazione del concetto di autodifesa che, ha detto il portavoce, "talvolta implica un'azione che può condurre alla morte di una persona". Una vera legittimazione morale per l'attacco americano.
In tutt'altro contesto, ma sulla stessa lunghezza d'onda, si è schierato il cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, che ha parlato durante il consiglio permanente della Cei, in corso a Pisa: "La Chiesa italiana è con gli Stati Uniti".

Tutto questo accadeva mentre Wojtyla, in un discorso ai rappresentanti del mondo della cultura kazaka, condannava l'odio, il fanatismo e il terrorismo che "profanano il nome di Dio e sfigurano l'autentica immagine dell'uomo", e chiedeva a tutti i credenti di "unire gli sforzi affinché mai Dio sia fatto ostaggio delle ambizioni degli uomini". Solo due giorni fa il papa aveva lanciato il suo appello a costruire un mondo senza violenza e discriminazioni, invitando cristiani e musulmani a pregare insieme per il bene supremo della pace. Incassando pure gli elogi del Gran Muftì di Gerusalemme, che però ha aggiunto: "Non basta che cristiani e musulmani preghino insieme per la pace: bisogna fare molto di più. Il Vaticano deve premere sugli Stati Uniti e sull'Unione Europea per evitare una rappresagli militare".




Tormenti a sinistra: dai no di Bertinotti alle tesi filo-Bush di Violante
Su Corriere della Sera

Assicura Livia Turco che questa volta "faremo di tutto per essere uniti, per non dare a Berlusconi la soddisfazione di vederci spaccati". Ma certo l'opzione-guerra, per quanto la parola non venga usata e si preferisca parlare - come ha fatto domenica Massimo D'Alema - di "scontro tra le ragioni dell'umanità e la barbarie" dei terroristi, mette in crisi la sinistra. E a rendere ancora più complicate le cose si aggiunge anche il riferimento alle armi nucleari fatto dal ministro della Difesa americano. Il gruppo dirigente dei Ds, domenica sera, ha applaudito lo sforzo di Massimo D'Alema che con il suo discorso di Reggio Emilia, sta cercando di costruire i presupposti dell'"opposizione responsabile" e di un'operazione bipartisan quando sarà il momento di discutere in Parlamento della guerra.

Ma nel partito e nella sinistra è il momento dei distinguo. E lo spettro delle posizioni è molto vasto. Si va da Rossana Rossanda che sul Manifesto qualche giorno fa ha scritto che non sta né con Bush né con Bin Laden, a Fausto Bertinotti che spiega che per sconfiggere il terrorismo bastano i servizi segreti e non ci vuole alcuna operazione militare, ai dubbi di gran parte dei Ds, alla sintonia completa di Luciano Violante con George Bush: "Le mie dichiarazioni sono le stesse che ha fatto il presidente americano quando ha detto che si tratta di individuare chi sostiene i terroristi e colpirli senza colpire l'Islam, i Paesi Arabi o il popolo afghano".
Per Giovanni Berlinguer, candidato alla segreteria dei Ds a nome del correntone Fumagalli-Salvi-Folena, il riferimento americano alle armi nucleari "cambia i rapporti tra il governo Usa e l'opinione pubblica mondiale".




Mai
Luigi Pintor su il Manifesto

Non ammetto che l'uso dell'arma nucleare sia un'opzione. Non ammetto che il ministro della difesa americano la metta nel conto. Non ammetto che un telegiornale prospetti questa eventualità tra la pubblicità di un dentifricio e una previsione meteorologica.
Non ci sto, dichiarò un giorno a reti unificate un capo dello Stato perché lo avevano calunniato. Finora non ho sentito nessuna autorità dire non ci sto, mai e poi mai, non concederò a nessuno questa licenza di strage supplementare.
Forse quel ministro americano si è fatto fare quella domanda da un giornalista per infrangere l'ultimo tabù, la tacita intesa tra grandi e medie potenze che nessuno per primo avrebbe usato quell'arma in nessuna delle sue varianti e innescato una spirale senza fine: infinita. Questo deterrente, su cui si è fondato per cinquant'anni l'equilibrio del terrore, viene ora a cadere e si trasforma in un incentivo allo squilibrio del terrore in cui già viviamo.
Fosse anche solo un'ipotesi remota o una minaccia verbale, costituisce già un precedente che non minaccia bin Laden ma il pianeta e che ci abitua al peggiore scenario. Ma una stratega americano ne ha anche descritto con concretezza la prima fase: settemila civili americani morti in patria più settemila militari americani morti o in pericolo in Afghanistan varrebbero bene il lancio di un'atomica tattica che chiuda la partita in pareggio o ne apra una nuova, in cui la disintegrazione atomica gareggi con le bombe uomo e la seminagione di batteri.
Non c'è neppure del metodo in questa pazzia, perché a sentir queste cose la paura che si impadronisce di qualsiasi persona normale in qualsiasi parte del mondo ci sta suicidando, e proprio qui in occidente prima che altrove. Non solo le strade, le piazze, le chiese, le moschee dovrebbero riempirsi di gente che manda al diavolo i signori del terrore e della guerra che giocano a dadi il nostro destino, ma anche i palazzi del potere dovrebbero dire non ci sto. Invece ascoltiamo queste enormità sponsorizzate dal pastificio di turno. E la guerra atomica, che diventa un'opzione come l'aria condizionata in automobile, scoppia virtuale dentro di noi.
Mai e poi mai, non lo ammetto, non ci sto. Il ciclope Polifemo, accecato da Nessuno, prese a lanciare macigni a caso che non colpivano il suo nemico ma squassavano dappertutto e sollevavano marosi. Gli dei di cui era figliastro avrebbero dovuto legarlo per impedirgli di nuocere a sé e agli altri, e così quel ministro dovrebbe essere tratto in arresto per misura preventiva: con l'avvertimento che qualsiasi cosa dirà potrà essere usata contro di lui in tribunale.



Bush e Bin Laden, soci d'affari e amici per la pelle
Francesco Piccioni su il Manifesto

Quel vecchio pirata di Prescott Bush sarebbe veramente contento di vedere fino a che punto i suoi discendenti hanno assimilato il suo spirito. Lui che nel 1918 guidò un'incursione in un cimitero Apache per prendersi il teschio di Geronimo e farne il trofeo della sua società di studenti, la Skull & Bones (teschio e ossa).

Era certamente contento del primogenito George Herbert, petroliere di scarsa fortuna ma agente della Cia in grado di scalarne la vetta (fu nominato direttore nel '76) nonostante il non esaltante risultato dello sbarco nella Baia dei Porci, a Cuba, di cui era il coordinatore.

Deve aver sorvolato su quella strana liason del figlio, negli anni '60, con un costruttore arabo che ogni tanto veniva in Texas e cercava di introdursi nell'alta società locale. In fondo, quel Muhammad Bin Laden lì, non durò poi molto: cadde col suo aereo mentre attraversava il cielo sopra i pozzi che così poca soddisfazione davano al suo prediletto. Era il '68, il mondo pensava ad altro.
George W., all'inizio, deve avergli dato parecchi grattacapi.

Ma finalmente, anche lui, si lanciava nel business del petrolio. A metà degli anni '70 fonda la Arbusto (bush, in spagnolo) Energy, raccogliendo come soci un po' di amici paterni (la Cia ha molti amici). Il suo compagno di scuola e di servizio militare, James Bath, gli procura investimenti da parte di Khaled Bin Mafouz e Salem Bin Laden, il figlio maggiore di Muhammad e nuovo capo della famiglia. Personaggio notevole, il Mafouz. Banchiere della famiglia reale saudita, sposo felice di una sorella di Salem e Osama, gran capo di Relief e Blessed Relief, le due "ong" arabe accusate di essere una copertura per l'organizzazione di Osama.
George, negli affari, è sfortunato. La Arbusto fallisce, si trasforma in Bush Exploration, poi in Spectrum 7. Immancabile arriva sempre la bancarotta. Ma Salem non gli fa mai mancare il suo generoso appoggio. Il successo pare arridergli quando la Harken Energy rileva la Spectrum pagando la sua quota azionaria ben 600.000 dollari. Che corrobora con un contratto di consulenza da 120.000 dollari l'anno. In breve si mette in tasca un milione, mentre la Harken ne perde decine. Ma procura un contratto di trivellazione in mare da parte del Bahrein, battendo Amoco e Esso. E' il '91, la guerra del Golfo sta per scoppiare, Bush padre è il presidente; e lo sceicco locale, Khalifa, preferisce non rischiare.

Del resto quando, alla fine dell'80, i repubblicani si incontrano segretamente a Parigi con i khomeinisti moderati per ritardare il rilascio degli ostaggi americani a Teheran e fregare così Jimmy Carter alle elezioni, George padre raggiunge di corsa il summit a bordo dell'aereo di Salem Bin Laden.
George W. è sfortunato, con i suoi soci. Su quello stesso aereo, nell''88, Salem trova la morte (anche lui) mentre attraversa il cielo sopra i pozzi del Texas. La coincidenza sembra a molti eccessiva, ma l'inchiesta fu molto accurata. Le conclusioni, infatti, non furono mai rese note. Nel frattempo un altro protagonista dell'incontro di Parigi, Amiram Nir - agente del Mossad - muore in un incidente aereo. Nessun sospetto, però: cade in Messico, mica in Texas.
La sfortuna perseguita anche i giornalisti che si occupano dei Bush. Danny Casolaro sta lavorando a un libro ("Untanglig the Octopus") che ricostruisce la rete degli scandali grandi e piccoli della presidenza paterna. Prima di finirlo, però, decide di suicidarsi "come un incapace", racconta Steve Mizrach. Stessa sorte per James H. Hatfield, 43 anni, che è riuscito a pubblicare "A fortunate Son: George W. Bush and the making of an American President". Una biografia non autorizzata che, nel '99, rivela come George abbia tenuto nascoste le sue frequentazioni con la cocaina. Per la legge del contrappasso, viene trovato morto per overdose in un albergo di Springdale, Arkansas, il 18 luglio di quest'anno.
Ora tocca a Osama, naturalmente. Sodale non d'affari, ma di operazioni targate Cia. Forse gli altri 52 fratelli avranno qualcosa da obiettare. Ma, direbbe Prescott, in una guerra mondiale c'è spazio a sufficienza per risolvere le beghe tra vecchi soci.



"Perché ci odiano così tanto?"
Mumia Abu-Jamal* su il Manifesto


I voli suicidi su New York, Washington e Pennsylvania hanno avuto origine nei monti dell'Afghanistan, nella guerriglia, durata dieci anni, contro l'allora Unione sovietica. La guerra era sostenuta e aiutata dalla Cia, che ha versato miliardi di dollari nelle tasche dell'insurrezione antisovietica. Il risultato? Un sociologo algerino disse a un giornalista americano ad Algeri "il tuo governo ha partecipato alla creazione di un mostro" e poi ha aggiunto "Ora si è rivoltato contro di voi e contro il mondo... 16.000 arabi sono stati addestrati in Afghanistan, trasformato in una vera e propria macchina da guerra" (Los Angeles Times, 4.09.96). Gli ha fatto eco un diplomatico Usa in Pakistan che ha detto: "Questo è un esempio mal riuscito di un gallo che torna cantare nel pollaio. Non si possono immettere miliardi di dollari in una jihad anticomunista, coinvolgere il mondo intero e poi ignorarne le conseguenze. Ma noi lo abbiamo fatto. I nostri obiettivi non erano la pace e lo sviluppo in Afghanistan. Il nostro scopo era uccidere i comunisti e buttare fuori i russi (Los Angeles Times, 4.09.96).
Come hanno fatto gli afghani a pagare per avere le armi, in un paese così povero e devastato dalla guerra? Quante persone sanno che l'Afghanistan è il paese maggior produttore di eroina al mondo? A corto di liquidi, i mujaheddin afghani scambiavano eroina contro armi con i fornitori della Cia, dando vita così al "Golden Crescent" il circuito islamico dell'eroina. Quando i sovietici furono cacciati e la guerra finì, i ribelli si guardarono attorno e si accorsero che non l'Urss ma gli Usa dominavano la regione. Si accorsero della presenza militare statunitense nei luoghi sacri dell'Arabia saudita, del sostegno Usa agli stati antidemocratici, della devastazione dell'Iraq e dell'appoggio unilaterale ad Israele, ottenuto a spese dei palestinesi assediati. E quando si sono messi a studiare gli Stati uniti, si sono accorti delle forti somiglianze imperialiste con i sovietici. L'Afghanistan, uno dei luoghi più poveri e devastati del mondo, ha una popolazione maschile con un'aspettativa media di vita di 46 anni (45 per le donne). Ha un tasso di alfabetizzazione del 29%. Guarda alla tronfia opulenza americana, al dominio globale dell'impero statunitense, e va in collera.

* Poeta, scrittore, detenuto nelle carceri americane in attesa di esecuzione



Tutti i rischi del conflitto psicologico
Alberto Pasolini Zanelli su l'Arena

Anche chi non appartiene al ristretto, tumultuoso e inquietante club dei "falchi" comincia ad augurarsi, in America e altrove, che "succeda qualcosa" presto. Che ci sia un'azione militare, limitata ma non senza effetti, che serva a scaricare in un certo modo la tensione, come una specie di parafulmine. Perché l'attesa crea incertezza e con essa crescono, accanto agli sforzi deliberati e ragionevoli della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato per costruire attorno all'America la più ampia coalizione possibile, anche notizie, mosse, voci e dichiarazioni che aumentano invece inquietudini e tensioni.

Ma più inquietante di tutte è un'altra ipotesi, affacciata in ambienti che si dicono "competenti", vicini alle fonti del controspionaggio dei Paesi occidentali: il "grande disegno" di bin Laden e dei suoi seguaci sarebbe proprio quello, moltiplicando gli attentati e le stragi, di aiutare i "falchi" americani, continuando a scatenare un terrore cieco, rinfocolando ulteriormente, odi, paure e fanatismi fino a spingere Washington verso rappresaglie sempre più gravi, sanguinose e impopolari. L'uso dell'atomica rientrerebbe evidentemente nel novero. Il fine sarebbe quello di scavare letteralmente abissi di odio fra l'Islam e il resto del mondo, assicurando così la coesione in un miliardo di musulmani e una loro rottura irreparabile con il resto del mondo. Un progetto sanguinario e irresponsabile, ma non privo di una sua certa logica perversa. Che aumenta ovunque tensioni e paura.



La grande scommessa di Bush
Arthur Schlesinger Jr. su il Sole24ore

Nel suo vigoroso discorso pronunciato al Congresso, il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha definito correttamente la minaccia del terrorismo. Così come altrettanto correttamente ha elencato le motivazioni di Osama Bin Laden, il presunto genio diabolico del terrorismo.
Odia tutti coloro che, a suo giudizio, sono i nemici dell'Islam e che, di conseguenza, devono essere annientati. E fra questi, il nemico numero uno sono gli Stati Uniti. Senza dubbio Israele rappresenta un ulteriore motivo di ostilità, ma Bin Laden odierebbe ugualmente l'America anche se non ci fossero più ebrei in Terra Santa.
Il presidente Bush ha giustamente affermato la leadership degli Stati Uniti nella campagna globale contro il terrorismo. Ma ha posto condizioni non negoziabili per la sua "guerra" che gli Stati amici considereranno imprudente e condotta in una forma che potrebbe essere ritenuta arrogante.
Gli alleati degli americani hanno senz'altro maggiore esperienza di terrorismo di quanta non ne abbiano gli Stati Uniti. Sanno quanto sia difficile sradicare i terroristi, perfino quando questi agiscono nei loro stessi Paesi. I terroristi baschi vivono in uno spazio relativamente ristretto della Spagna nord-occidentale, ma il Governo spagnolo ha tentato per 25 anni, senza riuscirvi, di porre fine alle azioni oltraggiose perpetrate dall'Eta in tutto il Paese. I terroristi corsi vivono su un'isola, ma continuano a sfidare ogni sforzo compiuto dalle Autorità francesi per schiacciarli. Gli inglesi non sono riusciti a fermare le bombe dell'Ira in Inghilterra e, adesso che l'organizzazione nordirlandese ha abbandonato il terrorismo, non possono nemmeno porre un freno all'impiego delle bombe da parte degli esponenti irriducibili di "Real Ira". Non c'è nessuna possibilità di sconfiggere il terrorismo.
Il presidente Bush si rende conto fino in fondo di dove sta portando la nazione? Il presidente Bush ritiene di sapere come si tratta con i terroristi in una parte del mondo di cui gli Stati Uniti hanno una scarsa esperienza storica e una ridotta conoscenza operativa. Avrebbe dovuto domandare a se stesso: qual è la prossima mossa che Bin Laden vorrebbe che gli Stati Uniti facessero? Quale risposta americana servirebbe meglio gli obiettivi del "cattivo"?

Samuel P. Huntington, docente di Scienze politiche alla Harvard University, alcuni anni fa scrisse sulla rivista "Foreign Affairs", da lui fondata, un articolo provocatorio anticipando che il futuro sarebbe stato contraddistinto da un "scontro di civiltà". Quale sfida migliore per l'amministrazione Bush di una smentita delle previsioni di Huntington? Se permettiamo alle operazioni internazionali di polizia contro il terrorismo di degenerare in una guerra di civiltà che contrappone l'Occidente all'Islam, ci avviamo verso la catastrofe. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è proprio una "contro-Jihad" - una Crociata - per rispondere alla Jihad invocata contro gli Stati Uniti dagli amici di Bin Laden.



  25 settembre